Francesco Falcone, il parere di un “Degustatore Sentimentale”
Porto di Bari, primissimi anni ’90. Vacillo ogni volta che rammento quelle strane mattine trascorse con i miei compagni di merende a “marinare” – letteralmente, nel mio caso – la scuola. Il nostro paese dei balocchi era il molo di San Cataldo: come non ricordare i motori borbottanti dei pescherecci ormeggiati sulla banchina “Mezzogiorno”, la parlata rozza dei pescatori, la frenesia di sbarchi e imbarchi, il sapore salmastro delle cozze pelose “aperte e mangiate” per tamponare la fame? Immagini, frammenti, nomi e sensazioni che immancabilmente tornano a galla, per motivi che non ho ben capito, quando i tratti più veraci del mare si ripresentano ai miei sensi sotto qualsiasi forma.
Provo ad esempio un’autentica venerazione per il celebre Fronte del Porto di Elia Kazan, noir sulla mafia portuale che sconvolge per la bruta violenza marinara, per un Brando memorabile e per il malinconico “bianco e nero” di Boris Kaufman. E sono un fanatico lettore, direi un ermeneuta mio malgrado, de Il Vecchio e il Mare di Hemingway, la cui poetica è talmente impregnata di salsedine da risultare bruciante, acre, perfino nauseabonda.
Poi ci sono il vino e il cibo, le mie passioni, e qui il registro “filomarinaro” si amplifica oltremisura, visto il mio legame acritico, nevrotico, bulimico, squilibrato con tutto ciò che sa di iodio: gli Champagne della Côte des Blancs, che invecchiando rimandano alle conchiglie spiaggiate sull’arenile dopo una mareggiata; la cucina “iperiodata” di Carlo Cracco (che usa spesso l’ostrica per esaltare gli altri gusti attraverso il contrasto) e, da buon barese, le crudità, sineddoche gastronomica ormai di moda ovunque, ma che raramente è proposta con il necessario savoir-faire. Approfitto anzi dell’occasione per denunciare le violenze regolarmente subite da crostacei, molluschi e “pescato” vario nelle cucine di molti ristoranti italiani: in anni di girovagare ho scoperto che la criminologia ittica è diffusissima, magari non fa notizia, però fa male al cuore e al palato dell’appassionato. Così male che proporrei l’interdizione da tutti i mercati ittici d’Italia per coloro che si ostinano a servire frutti di mare a temperature da freezer e carpacci affettati con la sensibilità di un apprendista salumiere.
È per questa ragione che mi pare necessario, oggi più che mai, svelare il nome del miglior ristorante marinaro che io conosca: si chiama Al Cuoco di Bordo ed è imboscato nel lungomare più gourmet d’Italia, a Senigallia, dove nonostante l’Adriatico sia disseminato di ombrelloni come un’immensa piantagione balneare l’alta gastronomia marchigiana è inaspettatamente, miracolosamente di casa: Mauro Uliassi da una parte, Moreno Cedroni de La Madonnina del Pescatore dall’altra e giusto a metà strada il locale di Isabella Righini e di Angelo Putignano – pugliese di Ostuni. Qui il pesce è sinonimo di mare: lo vedi, lo respiri, lo mangi.
Il merito dei titolari è duplice: selezionarlo con sagacia e conservarne intatta la freschezza. Scriverlo è semplice, ma nella realtà è come detto dote rara. E se la proposta dei crudi è sensazionale, anche le micrometriche cotture di primi, antipasti e secondi meritano una sosta. Piatti talmente freschi, puri e precisi che talvolta mi riesce di vedere, mentre mangio, lo scorcio di un pescatore, la bellezza pulita della spiaggia salentina, il punto d’azzurro del mare estivo. Un viaggio, dico. L’ultima volta che ci ho pranzato, un mese fa, ogni singola portata del menu mi ha lasciato senza parole: l’imperiale vassoio dei frutti di mare (popolato da specie rarissime i cui nomi sono oltretutto irresistibilmente comici: piedi di capra, cozze pelose, tartufi di mare e tanto altro), la marmellata di bianchetti (detta anche “schiuma di mare”, golosissima), il carpaccio di tonno “da corsa” servito con agretto di pomodoro (memorabile, indimenticabile), il baccalà “black code” con olive taggiasche e basilico (ovvero come ascoltare crêuza de ma di De Andrè senza accendere la radio), la sogliola dell’Adriatico scottata su blocco di sale rosa dell’Himalaya (originale variazione sul tema del mare & monti), il polpo arrostito con riso selvaggio (ma di selvaggio c’era soprattutto la fibra, saporitissima e tenace, del cefalopode ) e infine, per chiudere tra gli applausi, una sensazionale, tridimensionale linguina con ricci, bottarga di muggine e trito di cozze di profondità. Alle spalle di questo ben di (io) dio, c’è spazio per un ambiente curato, per una carta dei vini centrata con saggezza su un ristretto quanto ben selezionato nucleo di produttori locali (Crognaletti e Pievalta per citare i più noti) e su alcune bottiglie “Bio” ad alto indice di bevibilità (come il rarissimo e buonissimo Vej di Podere Pradarolo, metodo classico di malvasia di candia aromatica coltivata sulle colline di Parma). Citazione finale per il servizio, cortese, puntuale e piacevolmente disimpegnato, qualità che aggiungono buonumore e invogliano a tornare.
Francesco Falcone.